Una narrazione semplice che scava nell’intimità del lettore. I vuoti sono tali in modo da riempirli, colmando il dolore e la solitudine. Trasformandoli in ricchezza.

“Un vuoto nella pancia”

“Un vuoto nella pancia”

È possibile raccontare un’adozione? È possibile spiegare, anche ai più piccoli, tutti i vuoti e tutti i pieni di cui un tale percorso lascia tracce e segni indelebili? Sembra proprio di sì e a confermarcelo è l’autrice Francesca Sivo, con il fondamentale supporto delle illustrazioni di Aurelia Leone.

“Cara maestra…”: è così che si apre questa storia, volutamente e non a caso. La voce narrante è quella di una bambina, che sceglie la sua maestra come rifugio, come persona di fiducia a cui poter raccontare e raccontarsi. La persona di cui la protagonista sente un grande bisogno in quel momento è la sua maestra, la prima con cui si confronta e a cui sente la necessità di rivelare qualcosa della sua vita, così come spesso accade ai bambini.Ci sono due gattini a scuola, piccolissimi e indifesi, senza una mamma e senza un riparo, tirati fuori da un vaso abbandonato, come da un grembo che non è più adatto a contenerli. Un’immagine forte quella usata dall’autrice: la protagonista si sente proprio come quei due animaletti che, inevitabilmente, avvertono la mancanza della mamma. Ed è proprio questo l’episodio che la spinge a raccontare.

Il viaggio nelle emozioni comincia proprio da qui. Si avverte la presenza di una confusione che “pesa” nella testa, che gira vorticosa come una lavatrice, che è frutto di un turbinio di pensieri e di domande che restano senza risposte. Poi arriva la rabbia, quella che fa pensare che il male del mondo sia capitato tutto insieme alla protagonista, che la sente bruciare come un fuoco.

Il filo conduttore di questo viaggio sembra andare lontano fino a raggiungere nuvole di ricordi, a volte nitidi, a volte sfocati che si accalcano in cassetti pieni di dolore. Non si chiudono quei cassetti perché, ogni volta, c’è la cattiveria della gente, ci sono le domande inopportune e indiscrete che li riaprono, come un vaso di Pandora che sprigiona il male. A questo dolore si aggiunge altro dolore. L’autrice, infatti, sempre con grande delicatezza, descrive le case abitate dalla protagonista, probabilmente in qualche comunità di accoglienza, chissà dove e in chissà quale Paese, i lettini vicini, la voglia di una carezza, qualche regalo di Natale arrivato da lontano, i vestiti usati e mai della taglia giusta.

E poi la neve che, dalle finestre della nuova casa, non si vede quasi mai. Ma si vede il mare. Ed eccolo, il segnale di un cambiamento, di un luogo nuovo, abitato da una nuova mamma e un nuovo papà che, come giardinieri attenti, fanno rifiorire le loro piante con cura e amore. A questo punto del racconto, infatti, comincia un gioco di alternanze, un gioco di stridenti differenze, di binomi fatti da contrapposizioni. Ai vuoti lasciati dalle ecografie mai viste, dai racconti della nascita mai ascoltati, dalle tappe dei primi anni vita mai annotate in alcun diario, si passa ai pieni della voce della nuova mamma, dei pianti finalmente consolati, dei primi viaggi in macchina, dei compleanni finalmente festeggiati, del primo bagno al mare e del primo topolino dei dentini.Questa, dunque, è anche una storia di separazioni ed allontanamenti, di nostalgia e di durezza. Ci sono vuoti che la protagonista non dimentica e che la portano a restare sospesa e in bilico tra la rabbia e la serenità, tra la tristezza e la gioia, tra domande senza risposte e curiosità non sempre soddisfatte.

Il racconto è frutto di una storia vera, quella dell’autrice che, in prima persona, ha vissuto l’esperienza dell’adozione e, probabilmente di un vuoto da colmare, di un desiderio di amore da prendere e, soprattutto, dare. Commovente è l’alternarsi delle emozioni, in grado di provocare nel lettore gli stessi vuoti e gli stessi pieni di cui si narra. Alla fine del racconto si legge: “Ho un vuoto nella pancia. E pure nella testa”. Questo “gioco di ruoli” appassiona e diventa ancor più commovente. Il vuoto è ciò che probabilmente ha sempre unito la mamma, con il ventre che non ha mai accolto un figlio, e la bambina che, questo vuoto, lo ha vissuto nell’abbandono e nello smarrimento. Il percorso d’amore, quindi, si conclude con un lieto fine: quando due solitudini si incontrano e due vuoti sono pronti all’accoglienza, è proprio lì che nasce una rete unica di storie. È così che i dolori si intrecciano e le cicatrici diventano ricami.

Un albo costruito attorno ad una narrazione semplice, affidata alla bocca e al cuore di una bambina di dieci anni, ma di grande effetto e poesia, raggiunti in modo autentico, con tutta la spontaneità e la genuinità di cui Francesca Sivo è capace. Il tutto con il fondamentale apporto delle illustrazioni di Aurelia Leone che incontra l’autrice dopo un progetto per l’Accademie delle Belle Arti, gettando i semi per una fruttuosa collaborazione, nonostante la difficoltà di trattare con cura un tema così delicato – come la stessa illustratrice ha spiegato. I disegni accompagnano perfettamente le parole, senza mai offuscarle, creando una corrispondenza e un approfondimento mai eccesivi e “coprenti” rispetto ai testi. Ci sono giochi di trasparenze, con colori nitidi ben delineati e chiari richiami agli elementi della natura che pure rappresenta lo sfondo privilegiato in quasi tutte le pagine del racconto.

Sono pagine, queste, che scavano nell’intimità del lettore e, ancor prima, nell’intimità dell’autrice che le ha volute condividere, evidenziando, in modo velato, sottile ma chiaro, tutte le sensazioni che vivono nel cuore di un bambino adottato e tutti gli ostacoli che deve superare una famiglia adottante. Un linguaggio comprensibile a tutti: i vuoti sono tali forse perché c’è modo di riempirli, colmando il dolore e la solitudine degli altri, facendoli un po’ nostri e trasformandoli in ricchezza.

Mariangela Tantone

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